Antonio-Bardino, Il giardino del vicino, 2018, olio su tela, 100X70 cm

Il posto delle foglie
di Mariolina Cosseddu

Una mostra come un giardino dismesso, uno spazio come aiuole abbandonate, le stanze del museo come i margini dimenticati di strade secondarie non più attraversate dalla presenza umana: è la scommessa (e la sfida) di Antonio Bardino a spingere lo sguardo (il nostro) dove non vorremmo, spiazzati da una natura che si riprende il proprio posto, la propria vitalità. Simulacri di una condizione silenziosa, appartata, defilata dal clamore del mondo, i fogliami schivi e incerti, in transito verso luoghi ignoti, conquistano la propria autonomia e si espandono sulla tela in un proliferare organico e necessario. In questo personale diario visivo Antonio Bardino dichiara la propria poetica con una scelta concettuale e linguistica coraggiosa, non facile e non immediatamente leggibile nella ricchezza esornativa di questi giardini senza giardinieri, di queste “malas erbas” che, a dispetto di tutto, reclamano se stesse. Pur attingendo dalla grande tradizione classica del paesaggio naturalistico Bardino si avvia in un territorio non battuto da altri, vergine e ribelle, indocile e infestante che non seleziona le specie ma mostra la convivenza dell’alterità nella varietas delle forme vegetali. Vicino per molti versi alle teorie di Gilles Clement e al celebre “Manifesto del terzo paesaggio”, il lavoro allestito al Museo di Casa Manno rappresenta una scelta tra un corpus di opere omogenee, ultima fase della ricerca di Bardino. In realtà, a guardare con lucidità gli oli realizzati tra il 2014 e quelli approntati per questa mostra, si coglie l’intento profondo che sostiene le sue composizioni, dove non c’è mai niente di superfluo ma ragioni complesse innescate nella bellezza di una pittura sontuosa.
Abituato da anni a indagare le manifestazioni di una contemporaneità osservata attraverso le emergenze architettoniche di luoghi pubblici e privati o la desolante persistenza di strutture industriali, Bardino rovescia il versante della medaglia e ne scopre un aspetto irrequieto e inesorabile che implica una presa di posizione politica e culturale. Senza il progetto di esserlo. Almeno esplicitamente. Ragioniamoci con calma. La natura che ci propone questo artista inquieto come le sue visioni arboree è un orizzonte che non richiede contemplazione ma una partecipazione attiva: sono estensioni variabili di una natura spontanea e non più sfruttata, anarchica e biologicamente differente dove valgono solo leggi di sopravvivenza; sono “residui” di una realtà mobile, imprevedibile, determinata a conquistarsi il proprio spazio vitale adattandosi all’ambiente e dichiarando le proprie possibilità d’esistenza. In questo groviglio di piante pioniere, creative e governate da una forza energetica a evoluzione variabile si inoltra lo sguardo dell’artista che riconosce, nell’esuberanza disordinata della scenografia vegetale, una condizione esistenziale immaginifica e utopica. Uno spazio libero e condivisibile, marginale rispetto ai centri del potere, luogo permeabile e disponibile che contempla la diversità come bene comune, superficie senza confini certi semmai aperto all’incontro, all’accoglienza, alla comunicazione fra gli esseri viventi. Metafora, dunque, di una società non costrittiva e non respingente, inclusiva e antiselettiva, la natura di Antonio Bardino si presta ad un facile attraversamento in cui ci si può smarrire per ritrovare se stessi. È quanto fa lo stesso artista che inoltrandosi nel fogliame lo coglie con quel pennello virtuosistico che gli è proprio prima di abbandonarsi alla visione puramente astratta. In questi “giardini involontari”, infatti, in cui si genera un ordine dinamico e senza argini, l’ingresso è invito a un vagare sconosciuto e interrogativo fino a perdersi nella magia di uno stato atemporale. Così suggeriscono le visioni di Bardino che ci conduce per mano verso un limite dove tutto si annulla e dove esplode la luce calda di una ritrovata spiritualità. La dimensione metafisica è assicurata, la temporalità interrotta, la pittura magnifica se stessa.
Perché è la pittura, nella sua essenza più intima, la vera protagonista di questa personale visione del mondo. Una pittura piegata a variazioni linguistiche impreviste, declinata in modalità differenti e perciò necessarie, come la natura che esalta e che cresce per bisogno e “ampiezza biologica”, così l’artista asseconda quel processo creativo, lo lascia andare e lo trasforma in colore puro e vibrante, liquido o grumoso secondo le urgenze, funzionale a una nuova geografia dell’infinito. Ed è allora che si comprende meglio il poetico titolo di questa mostra che evocando il cinema di Ingrid Bergman e il suo “Posto delle fragole” ci costringe ad una ulteriore riflessione. Meditazione sul tempo e sulla caducità delle cose, cinema e pittura amplificano la nostra cassa di risonanza delle emozioni, ci offrono momenti di un piacere estetico che ci pone nostro malgrado di fronte all’ineluttabilità del ciclo della vita. Si fa sempre più manifesto così che il “percorso di deriva” (Gravano) dell’artista mentre ribadisce l’eterno legame tra uomo e natura ne svela il carattere universale e a questo punto imprescindibile di “vanitas”: il giardino, tanto più incolto e in balia di se stesso, ci ricorda la fragilità dell’esistenza, il ruolo della memoria, la precarietà della bellezza tradotta in una contemporanea e raffinata “natura morta”.